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LA PASSIONE DI CRISTO
(THE PASSION OF THE CHRIST)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 15 aprile 2004
 
di Mel Gibson, con James Caviezel, Monica Bellucci, Maia Morgenstern (Stati Uniti, 2004)
 
LA PASSIONE DI CRISTO è un film anti-tutto. Se la prima domanda è quella se il film di Gibson è antisemita, antistorico o, in definitiva, anti-cinematografico, la risposta non può che essere affermativa. Se ne è detto ormai fin troppo, di un fiume in sconsiderato parossismo consumistico; che, costato soltanto 25 milioni di dollari, ne sta recuperando 350 sul solo territorio americano, dei quali cento direttamente nelle tasche del suo autore. Considerazioni forse prosaiche, considerato il soggetto del film, ma appropriate ad un prodotto nel quale il materialismo pragmatico sembra importare prima di ogni altro.

Sbrighiamoci, allora. Antisemita ? Certo. Non fosse che per quel modo grossolano di fare di ogni erba un fascio. Rabbini dallo sguardo torvo, apparentemente cosi sfaccendati da accodarsi al massacro di un ebreo come loro, uno dei tanti contestatori in circolazione, consegnato ai Romani per attentato all'ordine pubblico nella cacciata dei mercanti dal Tempio. Ma, anche e soprattutto, per quella popolazione di Gerusalemme, rabbiosa, sghignazzante, indiscriminata nel reclamare vendetta. E l'iconografia alla Ebreo Süss, i nasi adunchi, la cupidigia, le monete d'oro. Una regressione meschina che ignora, oltre il buon senso per non dire della buona pittura, le riflessioni di generazioni che hanno condotto al concilio Vaticano II. Non è il solo, è vero, ridicolo e ignorante manicheismo: dai torturatori strabuzzati dell'avvinazzata soldataglia romana, al Ponzio Pilato ed alla sua Claudia, cosi umani, e comprensivi, e lungimiranti. O, ancora, a Caifa che gozzoviglia in piena orgia (guarda caso) omosessuale.

Antistorica, LA PASSIONE DI CRISTO? L'integralismo al quale si riferisce il regista-attore gli fa prendere ciò che gli fa comodo (l'impossibile fedeltà ai Vangeli intesi come cronaca; le fonti, letterarie e iconografiche delle ancora più inattendibili Passioni medioevali) e ignorare ogni logica storica. Per limitarci a quella di chi abbia ucciso l'innocente più celebre della storia: la crocifissione, supplizio romano e pagano, era estraneo alla cultura ebraica; mentre è assodato che solo Roma poteva reprimere, all'istante e senza alcun processo, ogni ribellione, "politica" o profetica che fosse. La denuncia fu probabilmente ebraica; ma l'esecuzione non poteva che essere romana. Malgrado l'opposizione (ignorata, guarda caso, nell'ambientazione del film) della massa ebraica.

Motivi ideologici? Prima di ogni altra cosa, trattandosi pur sempre di un film, ragioni cinematografiche. Non tanto poiché si concentra sulle sole ultime dodici ore della vita di Gesù, ignorando tutto quanto precede, ed eventualmente segue. Ma perché LA PASSIONE DI CRISTO è un film malato. La violenza, il materialismo, il compiacimento punitivo, dolorifico di quella specie di corrida che riduce il protagonista, come dice il Sunday Times, " a una pizza umana" escludono a priori ogni sorta di raccoglimento e di spiritualità. Susciteranno impressione, magari emozione, addirittura ribrezzo. Mai pietà. E non a caso, dopo la descrizione sadica di un supplizio che è già stato definito il più lungo e accurato della storia del cinema, alla Resurrezione, al vero miracolo, all'evento Meraviglioso che significa quanto precede, Gibson dedica pochi secondi di un paio di scialbe inquadrature. Tutto il suo desiderio di cinema si è come esaurito in quell'affanno crescente di bastonate, frustate, membra slogate e, come sappiamo, inchiodate. Pochi flashback oleografici ed anemici sull'infanzia e l'adolescenza, qualche sequenza sulla partecipazione inespressiva ma perlomeno riflessiva delle donne, l'assurda invenzione finale con il Golgota ripreso dall'alto, la goccia che prefigura altre vendette, diluvi e terremoti, questa volta con la complicità dell'Altissimo, non servono nemmeno da utile contrappunto a quella specie di western primitivo.

Certo, ci si può anche esprimere con il realismo, il naturalismo e un certo uso della violenza. Ma quelli dello Scorsese di L'ULTIMA TENTAZIONE DI CRISTO servivano a umanizzare l'idea del Sacrificio, a riportarlo alla nostra dimensione più umile, sottrarlo all'accademismo iconografico e spirituale. Gesù, ci diceva Scorsese in quel capolavoro, non è soltanto un Mito; la sua è una esperienza che viene riproposta ogni giorno attorno a noi, nella sofferenza dei comuni mortali.

La violenza della Passione secondo Gibson fa pure parte del nostro quotidiano: ma è quella volgare, perversa e finalizzata sulla quale dovremmo essere in chiaro. La visione morbosa della corrente religiosa alla quale si riferisce, l'idea che alla salvezza si giunga soltanto attraverso la mortificazione e la sofferenza, l'espiazione dettata da un Dio persecutore e crudele piuttosto che generoso e pietoso finisce per sbavare su ogni immagine del film. E poi, via, se Mel Gibson non è il Grünenwald che nel sedicesimo secolo dipinge il Cristo più martoriato, ma sublimato, di tutta la cultura occidentale, non è nemmeno gore, splatter, tarantiniano. E' grand-guignol spiccio, con il solo merito di aver sollevato il dibattito.


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